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I rapporti “mediati” dai social

Individuo

Internet è diventato negli ultimi decenni uno strumento indispensabile nelle nostre vite.

In particolare, la pandemia per Covid-19, che ci ha costretti a casa privati di spazi fisici e relazionali, ha incrementato l’uso di internet e ha modificato il modo di gestire i rapporti sociali.

Ma siamo veramente connessi a qualcuno?

I social media in questi due anni di clausura forzata ci hanno concesso l’opportunità salvifica di mantenere uno sguardo sul mondo, riducendo il senso di isolamento. 

Sono stati per certi versi “terapeutici”, ma il mare di connessioni è ricco di profondità che non si riescono a cogliere e che possono generare disorientamento e malessere. 

Vita sociale vs Vita social

Spesso osservo persone allo stesso tavolo che, invece di godersi l’incontro del qui ed ora con una persona in carne ed ossa, preferiscono chattare con chi non è presente, con un profilo digitale. 

È cambiato, dunque, il modo di pensare i rapporti: oggi sei “amico” se puoi accedere ai contenuti social di un altro. In pratica, divento amico con un click e ho la libertà di non esserlo più con la stessa facilità

La vita sociale virtuale si configura come una copia, una ricostruzione, un’imitazione goffa della vita sociale face to face. Le interazioni, le amicizie e gli amori tra persone si liquefanno.

(Cantelmi T., 2013)

È più semplice e protettivo lasciare un commento per esprimere empatia piuttosto che abbracciare qualcuno ed ascoltarlo per ore; è più facile mettere un like piuttosto che fare una telefonata e chiedere “come stai?”. 

I rapporti veri e solidi richiedono molto impegno e fatica, richiedono cura e dedizione. E all’interno della nostra frenesia ed individualismo questo non sempre è consentito. Non si è disposti a scendere a compromessi, ad ascoltare l’altro, a rinunciare, a conoscere davvero chi si ha di fronte, scoprendolo piano piano. Non si è più disposti ad offrire fiducia e l’intimità emotiva diventa pericolosa.

Sfuggiamo dai legami, perché ci sentiamo annodati a qualcuno diverso da sé e questo diventa soffocante.

La libertà prima di tutto!

Ma poi siamo schiavi dei follower sui social che nemmeno conosciamo. 

Amici con la a minuscola

I social media sembrano dei cataloghi all’interno dei quali scegliere il nuovo amico/a sulla scorta del suo profilo: se l’aspetto estetico è ok e ci soddisfa, allora si passa al lavoro, agli interessi, al tipo di vita che svolge, senza pensare che quella persona potrebbe essere solo frutto dell’immaginazione. 

Spesso, dietro un profilo brillante, al limite della perfezione, ci sono persone molto diverse, con una profonda sofferenza psichica, che cercano un rifugio contro la noia, la depressione, l’insoddisfazione della propria esistenza. 

Quindi, per scegliere gli amici e più che altro per sentirmi amico di qualcuno, per sentirmi social (ma non sociale) vado sui loro profili, faccio le mie valutazioni e tra due persone che mi piacciono, seleziono quella con più follower (perché potrebbe essere utile a far crescere la mia popolarità). 

La libertà di stringere amicizie con chiunque, presentarsi come si vuole a queste, interromperle quando si ha voglia, riunirle in un unico grande contenitore senza distinzione d’importanza, porta a un’inevitabile instabilità, insicurezza e precarietà dei legami

(Carlini F., 2004). 

In pratica, non esistono legami, ma solo connessioni e disconnessioni. Viviamo esprimendo nei social il bisogno di essere VISTI dagli altri, di mostrarci, per ottenere quei feedback indispensabile alla stima di sè.

Bauman, crede fermamente che l’era digitale abbia portato la “creazione di reti ma non di comunità”, cioè non quel gruppo legato da uno stretto rapporto che rafforza l’individuo e gli da un senso d’appartenenza, quindi di sicurezza e vicinanza, ma una “rete” globale, che nel mentre mette in contatto più velocemente con molti altri, “rende allo stesso tempo gli individui più deboli, aumenta il senso di solitudine, d’insicurezza e porta, col procedere, all’infelicità” (Bauman Z., 2014).

Dimmi quanti follower hai e ti dirò chi sei

Il tasto like, il “mi piace” del web, è il tasto più cliccato al mondo (Cantelmi T., 2013). 

E siccome ogni medaglia ha il proprio rovescio anche la questione dei like ha, a mio avviso, aspetti positivi e negativi.

Da un lato avere una finestra sul mondo, anche quello più lontano spazialmente da me, permette di conoscere cose che probabilmente non si sarebbero mai potute vedere. Questo arricchisce e stimola.

Ricevere numerose informazioni differenti e osservare persone che esprimono la propria arte sui social, invoglia a “fare”, attiva idee, mette in moto il processo creativo. 

Inoltre, avere molti stimoli, foto e video, e per ognuno di essi chiedersi “mi piace?”, offre l’opportunità di conoscersi di più ed interrogarsi anche su aspetti esistenziali o creativi che sarebbero rimasti inesplorati. 

Ma, girando la medaglia, quando il focus è spostato sulla domanda “quanto piaccio agli altri?”, andando alla spasmodica ricerca di follower per raccogliere gratificazione, per sapere quanto valiamo come persone, allora lì le cose cambiano drasticamente. 

Se con un tot numero di seguaci digitali sono “loser” e con un altro tot sono apprezzato, allora il mio valore intrinseco dov’è?

Il bisogno di approvazione, apprezzamento, stima, appartenenza muovono molte persone che condividono tutto, tutto ciò che pensano possa soddisfare i loro bisogni. Cancellano le imperfezioni con Photoshop e postano.

Le foto sui profili sono tutte simili, alla ricerca di un’ideale di perfezione per essere acclamati.

Ma il prezzo che si paga può essere elevato: l’uniformità a scapito della personalità.

Essere o non essere?

Sui social media, che funzionano attraverso contenuti visivi, l’apparire in un certo modo conta molto di più che l’essere in un certo modo.

E, spesso, l’immagine social che la persona crea di se stessa non solo è distante da quella reale, ma è anche difforme dall’immagine ideale di sé. Non vorrei essere ciò che desidero, ma ciò che ritengo possa piacere agli altri. “Gli altri”, la folla, il pubblico diventa sovrano indiscusso e, attraverso questo potere, diventa giudice che valuta ogni giorno tutto il giorno.

Ma cosa valuta?

Aspetti che con il valore personale non c’entrano poi tanto: la questione estetica in prima battuta, il look.

Nella vita reale, invece, si dovrebbe essere apprezzati per quello che si è, per i propri valori, per l’intelligenza, l’altruismo, la gentilezza. Non di certo per la taglia di reggiseno, i tatuaggi, gli addominali scolpiti.

Non si viene apprezzati solo se ricevi più applausi degli altri come in una gara di popolarità di bassa lega, ma se ricevi applausi dalle persone che per te sono importanti. 

Sui social conta la quantità, mentre nel sociale conta la qualità.

Spesso, inoltre, il confronto con il profilo social altrui, in cui viene ostentata una vita felice e perfetta, determina un movimento di crisi ed insoddisfazione circa la propria vita.

Non ci ricordiamo quasi mai che i social sono delle vetrine e nelle vetrine si mettono in vista le cose migliori che si hanno, mentre quelle più scadenti si lasciano nel fondo del magazzino.

Rispondi alle domande

La questione non è avere o meno i profili social (sono la prima che li ha e li cura), ma è importante gestirli adeguatamente, con misura e non dare ai social media il potere di definire chi siamo e quanto valore abbiamo.

Potrebbe essere utile porsi alcune domande:

  • La quantità di follower e like è indicativa del mio valore personale?

  • I social media sono per me uno svago o un obbligo?

  • Mi mostro per quella che non sono davvero?

  • Cosa mostro di me sui social? Le mie qualità (intelligenza e creatività), le mie idee sulla vita e sul mondo, le mie abilità oppure una versione distorta di me?

  • Ho una rete sociale nella vita vera?

  • Quante ore della mia giornata sto connesso/a?

  • Nella vita sociale ho delle relazioni soddisfacenti? Le curo?

Per approfondire

Cantalemi T., (2013) Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida, San Paolo Edizioni

Carlini F., (2004) Parole di carta e di web. Ecologia della comunicazione, Einaudi 

Bauman Z., (2014) La società dell’incertezza, Il Mulino

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