La speranza è l’ultima a morire.
Finchè c’è vita c’è speranza.
Questi detti antichi ci indicano come la speranza sia il sale della vita, quella fede che ci muove e ci stimola.
Il tema della speranza accompagna le riflessioni di molti da tempo, oggi vi propongo il mio punto di vista sull’importanza della speranza all’interno del processo terapeutico.
Speranza disperata
La speranza non è da coniugarsi con il sognare, con l’illusione, l’ideologico e tanto meno con la virtù.
Essa è la fiducia nella possibilità del mutamento in un tempo prossimo.
È un costrutto multilivello in assenza del quale non appare possibile un investimento nell’avvenire, in quanto senza speranza non si riuscirebbe a superare la “temporanea sfiducia nel tempo” Erikson (1974).
Chi sperimenta un sintomo vive immerso nella sfiducia, nella disperazione e l’unico modo per rendere il tempo futuro, che altro non è che il tempo delle possibilità e del cambiamento, più vicino è riattivare la speranza, la fiducia, la motivazione.
La costruzione della speranza
L’hardcore della speranza si costruisce all’interno del contesto familiare: se la persona avrà sperimentato legami saldi e positivi con le proprie figure di attaccamento durante la fase di sviluppo, vivendo in un contesto familiare sicuro ed incoraggiante, costruirà dentro di sé sentimenti di fiducia e speranza sia auto che etero-diretti.
Se il contesto familiare è risultato affettivamente scarno o terrorizzante, la persona non avrà modo di costruire fiducia e speranza, in sé e nell’altro, e sarà più complicato all’interno del processo terapeutico costruire quel senso di fiducia e speranza mai sperimentati prima.
La connessione tra speranza e contesto ambientale viene sottolineata anche da autori come Winnicott e Erik Erikson, su cui facciamo un breve zoom.
La speranza per Winnicott
Winnicott scrive nel 1973 La delinquenza come sintomo di speranza, mettendo la speranza in correlazione con la deprivazione, intesa quale forza portante degli atti antisociali compiuti da bambini e adolescenti.
L’autore sostiene che in una situazione in cui la coppia di genitori rappresenta una cornice indistruttibile e affidabile, il bambino può sentire ed esprimere la sua aggressività come qualcosa di normale e a poco a poco integrare gli impulsi distruttivi con i bisogni affettivi imparando a modulare il proprio comportamento aggressivo.
Quando invece sopraggiunge la distruzione della famiglia il bambino, deprivato di un ambiente in cui mettere alla prova e integrare la sua aggressività, sente quest’ultima come pericolosa e la soffoca perdendo la propria impulsività e spontaneità.
L’aggressività dopo la deprivazione e dopo un periodo di quiete forzata (Winnicott 1967, p. 94) sfocia con forza in ATTI ANTISOCIALI (intesi come manifestazioni di disagio quali il rubare, il mentire, il distruggere).
L’azione antisociale messa in atto dal bambino rappresenta per Winnicott un segnale di speranza. Attraverso l’atto del rubare o del mentire o attraverso la distruttività il bambino esprime la speranza di poter recuperare l’esperienza buona che è stata perduta.
“Attraverso la distruttività il bambino è alla ricerca di una stabilità ambientale perduta, di una cornice, di un cerchio il cui primo esempio sono le braccia o il corpo della madre” (Winnicott, 1956, p. 369).
Il compito di chi si trova a vivere le manifestazioni antisociali messe in atto dal bambino è innanzitutto di raccogliere il messaggio di speranza che attraverso di esse egli esprime, riconosciuta la deprivazione, dare a essa una risposta.
La speranza per Erik Erikson
Per l’autore la speranza è una forza che nasce da superamento della prima fase psicosociale che prevede l’antitesi fiducia di base vs. sfiducia.
La fiducia di base è l’esperienza di accettazione incondizionata che deriva dalle esperienze relazionali nella prima infanzia caratterizzate da prevedibilità e costanza.
La madre è la diretta trasmettitrice di questa fiducia, ma deve essere supportata dall’intero nucleo familiare e dal contesto sociale.
Ella deve essere portatrice di fiducia, soprattutto in se stessa come genitore e nel significato del proprio ruolo all’interno del processo di crescita del figlio.
La speranza nella relazione terapeutica
Dagli elementi che ci hanno offerto questi due autori, è semplice affermare che la speranza è relazionale.
Quindi, se spostiamo lo sguardo sulla relazione terapeuta-paziente, la sola speranza del paziente in se stesso, in noi, nel futuro, nel cambiamento è sufficiente? NO.
Ci dice Walter Benjamin: Se la speranza non vive nel cuore di chi cura a nulla possono servire anche le più sofisticate strategie terapeutiche.
La speranza dello psicoterapeuta deve nutrire quella del paziente e viceversa. Solo se il terapeuta confida nell’acquisizione di maggiore flessibilità e di margini più ampi di fattibilità da parte del paziente egli ha una chance di miglioramento.
Solo se la relazione tra paziente e terapeuta si nutre della loro reciproca speranza potrà avvenire la trasformazione silenziosa dettata dal sincronizzarsi degli stimoli del terapeuta con la maturazione delle potenzialità di sviluppo del paziente (Tramonti, Fanali, 2013).
Questo significa che senza la speranza del paziente e del terapeuta qualunque psicoterapia sarebbe destinata al fallimento.
La speranza non è riconducibile all’ottimismo, ma piuttosto è simile ad un’ancora: la perseveranza dell’attesa, la fiducia nell’individuazione di una via della guarigione possibile.
Nel contesto di cura psicologica è ricerca rispettosa costruttrice di salute.
Il terapeuta
La rigidità di alcuni pazienti, le forti e recidive resistenze, a volte, hanno un impatto negativo sulla speranza dello psicoterapeuta, a tal punto da potergli fare ritenere il proprio lavoro non proficuo.
“Non deve mai succedere che lei si senta sconfitto. E non per un bisogno virile di vincere sempre, ma perché il disfattismo del terapeuta è la cosa più distruttiva che possa capitare ad un paziente. Se il suo terapeuta si sente sconfitto, nel paziente non potrà mai nascere alcuna speranza“.
(Bettelheim, Rosenfeld, 1994).
Noi terapeuti, quindi, dobbiamo portare dentro di noi il fuoco sacro della speranza, ovvero la fiducia nei nostri pazienti soprattutto quando loro non la intercettano dentro di sé.
“Ieri, mi sentivo dentro una speranza non motivata. Non speravo in qualcosa di preciso avevo solo nel cuore una speranza, la speranza. Questa speranza immotivata contiene un sacco di cose: anche il futuro. Un futuro che era vita, tutto sommato. La presenza di un avvenire. Prima il futuro mi spaventava perché vedevo nel futuro la ripetizione del presente mentre oggi percepisco la libertà di avvenimenti. Il futuro: una situazione aperta senza l’esigenza di fissare orizzonti. Sento la speranza che si apre come una nuova vita”.
Maria Teresa
(Borgna, 2005).
Anche se avrò aiutato una sola persona a sperare non avrò vissuto invano.
Martin Luther King
Per approfondire:
Bettelheim, B., Rosenfeld, A., 1994, L’arte dell’ovvio. Nella psicoterapia e nella vita di ogni giorno, Feltrinelli editore
Borgna E., 2005, L’attesa e la speranza., Feltrinelli editore
Ghidoni C., 2017, Volti del limite e della speranza in psicoterapia Riv. Psicol. Indiv., n. 81: 69-84
Erikson, E.K., Identity, youth and crisis, New York, Norton, trad. it. Gioventù e crisi di identità, 1974, Roma, Armando editore
Tramonti, F., Fanali, A., 2013, Identità e legami, La psicoterapia individuale a indirizzo sistemico-relazionale, Giunti Editore
Winnicott D.W., 1956, La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli, Firenze, 1975
Winnicott D. W., 1967, Delinquency as a sign of hope, The Prison Service Journal n. 7; trad. It. La delinquenza come sintomo di Speranza, in Feinstein S. C. Giovacchini P. L., 1975, Psichiatria dell’adolescenza vol. 2 Roma, Armando editore